L’immagine di quell’Aula vuota, mentre è in discussione il destino delle donne e degli uomini che imbracciano il machete è la metafora perfetta: siamo affetti da tiepidismo inguaribile. È genetico, gattopardesco, inevitabile. Scende la lacrima a vedere lo strazio di chi sopravvive alle donne, spesso giovanissime, ammazzate e bruciate vive ogni giorno. E si battano mani e piedi alle nostre accalorate signorine dei salotti che si sgolano in tv per gridare allo scandalo. E poi si fa spallucce. Ieri avremmo dovuto imbracciare la buona volontà e il coraggio di dire che non ci stiamo. Che non tolleriamo più di essere rappresentati da mediocri, in gonnella o in pantaloni, incapaci perfino a ratificare una Convezione di civiltà. Vergognarsi non serve più: è l’assuefazione ad aver vinto. Il neologismo femminicidio fa male. Ma non abbastanza perché qualcuno ponga freno all’emorragia. In prima fila ai funerali, solo lì. Per il resto siamo ultimi. A guardare. E ad aspettare che le cose, oltre alle persone, muoiano.