Una giornata di dolore, come tutti i giorni nei quali le donne, a ogni latitudine, combattono contro la resistenza di un pregiudizio
Siamo tante, tantissime.
Definite, a neuroni alterni, l’altra metà del cielo, soffitto di cristallo, angeli del focolare, proprietarie dell’utero libero.
Abbiamo attraversato secoli e storie con la dignità della non arrendevolezza. Oggi, siamo costrette a scendere in piazza (virtuale) per dare voce alle tante che non ce l’hanno fatta: morte per mano del loro uomo, comparte in sposa, abbagliate da libertà apparenti, lontane dal traguardo della parità.
La battaglia contro le violenza, quella rossa come il sangue e quella bianca come le violazioni silenziose, ha unito i due emisferi: il primo, delle conquiste avvenute a mai completate, e il secondo, delle leggi da pretendere a suon di nuove morti annunciate.
È un otto marzo di dolore, come tutti i giorni nei quali le donne, a ogni latitudine, combattono contro la resistenza di un pregiudizio, la disparità salariale, il compromesso del lavoro, la discriminazione sottile, il giogo dell’ignoranza, la pressione reazionaria, l’abuso del corpo, la schiavitù dell’animo. E la lotta intestina, quando le donne diventano le peggiori nemiche di se stesse.
È un otto marzo per chiedere agli uomini di scendere in campo e alle donne di non salire sul piedistallo degli “ismi”, oggi improbabili. Abbiamo un’eredità da meritare: quella dei primi movimenti e delle condivisioni autentiche. E un orizzonte incerto da rischiarare: perché si resti convinti della diversità nelle opportunità alla pari.
L’Italia è una repubblica sull’orlo della bulimia. Ma non c’è Giustizia, Libertà, Etica che regga senza la risoluzione di questa atavica questione di genere. Che diventa questione del genere umano.
Il resto, è festeggiamento che non ci appartiene. Retorica che non ci qualifica. Voragine di civiltà nella quale non vogliamo più precipitare.
da PiùEconomia